La Storia


Riproduzione dello Stemma Mirto. L’originale è custodito  dalla famiglia Vacca de Dominicis

LE ORIGINI DELLA FAMIGLIA MIRTO DI EBOLI  - a cura di  Carmelo Currò Troiano

 

E' una fra le più importanti famiglie di Eboli e nel Cinquecento fu tra le più conosciute del Regno. Molta confusione è stata fatta intorno alle sue origini da alcuni antichi autori, dai compilatori di genealogie che nei secoli passati moltiplicavano le loro invenzioni per ingraziarsi personalità in vista servendosi di assonanze onomastiche, similitudini araldiche e notizie aggiustate. Prodi cavalieri venuti in Campania dal Lazio; anzi da Roma. E non solo cavalieri ma nobili di antichissimo lignaggio; e di grandi parentele. Altri nobili? grandi condottieri? Molto migliore, a leggere lo Zazzera, era l'ascendenza dei Mirto arcivescovi, diplomatici, baroni e condottieri. Dovendo esporre la storia, la nobiltà e le imprese di simili persone (da tenere sotto controllo, ossequiare, vezzeggiare e adulare perché di casa nelle corti e nelle cancellerie), meglio mantenersi ad alto livello, anche se occorre inventare o forse indorare, poggiando sostegni di cartapesta sotto decorazioni di marmo. Perch
é proprio di cartapesta si tratta, in tanti casi, ogni edificio che viene e veniva edificato da poco abili genealogisti, spesso inesperti di storia, lettura dei documenti antichi e specialmente di filologia, in cui una parola significa un'altra mentre loro, incuranti di ogni diversa possibilità, si innamorano e stabilizzano sulle loro ipotesi, facili e quindi sempre false. Ricordo di aver letto un breve saggio del Pelliccioni di Poli, la cui fama di genealogista crebbe per un certo periodo, sulla famiglia Gambardella, edito nel 1977. Nelle pagine, l'autore dichiarava che il cognome di questa famiglia originaria della costiera amalfitana, era derivato da una caratteristica fisica del capostipite legata alle sue gambe. Dimostrando di non sapere niente, appunto, di filologia; in quanto nel latino altomedievale dialettizzato in uso nell'area esaminata, camarda e camardella erano i p

iccoli terrazzamenti su cui si coltivavano i limoni. Siamo alla storia del felceto alla cui coltivazione risale l'origine della famiglia d'Afflitto amalfitana, che opportuni adulatori avevano invece congiunto alle afflizioni del martire S.Eustachio ritenuto antenato della stirpe che fu invece prima contadina a Capri, poi nobile nella città vicina (cf: C.CURRO', Storia e mito: Gerardo, Scala e l'Ordine di Malta, in http://www.italiamedievale.org/sito_acim/).

 S.Eustachio per i d'Afflitto, il beato Gerardo per i Sasso.

 Che cosa si dice dunque per i Mirto? Francesco Zazzera, inventore e diffusore non autorizzato della più esasperata genealogia familiare, supera tutte le fantasie possibili, facendola diventare ramo della famiglia Frangipane; e agli esordi della sua opera letteraria sulla stirpe, collega immediatamente questa stessa agli Amici romani. In maniera sono eminenti:, scrive il fantasioso autore, mentre attendiamo i principij dei Frangipani trarre i suoi primi cominciamenti, e fundar le sue Basi sopra l'augustissima Casa Anicia (Cf. F.ZA

mappa di Eboli dedicata al Patrizio Mirto

ZZERA, Della Famiglia Frangipane, Napoli 1617, p. 1). Quanto sia discutibile una simile ipotesi è confermato dalle semplicistiche fonti onomastiche che lo Zazzera tira in ballo per consolidare l'antichità e regalità degli Anici, ricordando persino come prima ancora che dall'imperatore romano Anicio Olibrio, essi sono stati fatti discendere dai soliti principi troiani o da Ansi, faraone egiziano (ibidem); e passa quindi a ricordare tutti i più noti esponenti della storia antica, sia quelli che effettivamente appartennero alla grande stirpe imperiale romana, come S.Benedetto, S.Paolino da Nola, Boezio, S.Gregorio Magno, sia altri personaggi che i suoi immaginifici colleghi hanno ritenuto poter essere collegati alla famiglia, quali i capostipiti delle Case Asburgo o Pierleoni o persino degli Aligheri, dal momento che un Eliseo vissuto ai tempi di Carlo Magno a suo avviso fu il fondatore della famiglia fiorentina degli Elisei da cui sarebbe disceso Cacciaguida, antenato di Dante.

 Ma qualche secolo dopo queste favolose attribuzioni, profusione di titoli e di parentele, se ne aggiungeva un'altra, sostenuta proprio da una persona che alla Famiglia apparteneva davvero. E a farlo era il nipote diseredato del Barone Mirto. A dimostrazione innanzitutto che nessuno aveva preso sul serio la parentela con i Frangipane; che chi non l'aveva presa sul serio aveva anche dimenticato questa storia; e che infine, volendo fare propaganda per indorare il proprio cognome, una qualsiasi genealogia andava comunque bene. Figlio di soldato, nominato egli stesso capitano dal vicerè di Napoli, filantropo, feudatario, il Barone Giuseppe Mirto non aveva avuto figli dal suo matrimonio con Cornelia Martucci ma, come recita il suo elogio intessuto dal Pacichelli, sosteneva i poveri invece della prole. Chi lo sa come dovevano esserne indispettiti i suoi parenti superstiti, pensando a quello che per loro era uno sperpero finanziario: il vecchio Barone largheggiava con chiese e con poveri in uno sperpero che si sarebbe potuto evitare cedendo a loro stessi quel danaro benefico. Immaginiamo i commenti, le recriminazioni, i pettegolezzi che vanno di casa in casa e che devono colpire sempre più duramente il povero Giuseppe, negando al suo cuore qualsiasi buona disposizione nei confronti dei prodighi e ciarlieri consanguinei.

Quando il munifico Barone passa a miglior vita, una triste sorpresa affligge i suoi congiunti: il compianto gentiluomo ha destinato i suoi beni proprio alla Chiesa e a quei poveri che tanto amava, facendoli assistere da un Monte dei Poveri per elemosine annuali, e lasciando i prossimi consanguinei senza gli auspicati emolumenti. Che fare? come porre riparo a un simile scandalo? Ed ecco che un leguleio si presta a suggerire di impugnare il testamento, e scrive la solita pubblicazione difensiva della sua tesi, chiamando e descrivendo una profusione di sovrani ed autori sacri o giuridici per giustificare con le loro opinioni manipolate ed extrapolate la possibilità che si possa cambiare l'ultima volontà del defunto con la sovvenzione in favore dei parenti poveri.(Cf. N.PICARDI, Della ragione di commutare la ultima volontà del Barone Giuseppe di Mirto a beneficio de' pubblici Regj Studj e della famiglia del defunto, Napoli 1733). Tutte le presunte colpe del Barone vengono riesumate e le sue bontà completamente obliate. Mentre la generosità verso i poveri viene del tutto ignorata, l'avvocato pubblicizza che il Barone aveva sottratto al nipote quasi tutto quel che gli spettava come fedecommesso degli antenati, che gli aveva rimesso solo un credito di poche centinaia di ducati, e che non gli aveva nemmeno voluto rimettere un altro credito di 1.300 ducati (id., p.2). Una somma certo ingente che sarebbe passata nei diritti degli eredi beneficati; e che intanto dimostra come il nipote fosse stato più volte impegnato a chiedere danaro allo zio il quale doveva essersi stancato di fare da continua cassa a favore dei suoi sperperi. Nelle ragioni del mancato erede, sostenute dalle lotte politiche che proprio in quegli anni separano la Chiesa dallo Stato borbonico e mettono in discussione la devozione cattolica dei suoi governanti, ecco che Livio, S.Agostino, Paolo III, il Gotofredo, e una lunga serie di altri geni vengono evocati ed invocati per sostenere con tenui puntelli la pericolante tesi dei delusi ereditandi e giustificare la possibilità che il principe possa commutare il legato pio a favore di una più degna destinazione.

Ed ecco, che l'avvocato del povero nipote, ricorda come il "ricchissimo" barone e il suo maltrattato nipote siano discesi da una vetusta e nobilissima famiglia che non merita per i suoi esponenti un oltraggioso testamento. I Mirto, si spiega, sono gli antichi la Morte, e perciò inserisce nella sua memoria a stampa nomi di conosciutissimi antenati dei Mirto menzionati con quel diverso cognome; forse perché nella sua immaginazione pensa anche alla possibilità di un antenato comune con la famiglia francese de la Motte, con la conseguente risorsa di altra inutile, lontana e immaginaria nobiltà aggiunta. Un'altra, appunto, dopo l'invenzione dei Mirto Frangipane che tanto ha fatto sognare gli amanti dei doppi, tripli e quadrupli cognomi. Infatti, il fantasioso avvocato recita nelle sue pagine che la famiglia Mirto o sia della Morte, era così nominata in antiche carte, onorata con la stima dei Sovrani, menzionata come nobile e feudataria ora come Mirto ora come Morte (id., pp. 32-33).

 E' molto più semplice, invece, ritrovare le vere origini dei Mirto molto più vicino a noi: nella località calabrese che porta il loro cognome. Ossia in Mirto, frazione di Mirto Crosia, feudo disabitato per alcuni secoli ma luogo conosciuto fin dall'antichità e oggi ampiamente ripopolato. Il Mirto del cognome, il Mirto dello stemma, dunque, altro non è se non il ricordo delle piante diffuse in quel territorio, richieste nei millenni passati, sia per i rimedi medici che per l'uso industriale degli antichi come la concia delle pelli. La località detta Mrtys o Mrtws nell'opera del medio ebreo Donnolo Shebbetay nel X secolo, è vicinissima a Crosia, il luogo dell'oro, nome bizantino che indica un'altra antica risorsa del territorio calabrese: la presenza di vene aurifere presenti nel sottosuolo e nei corsi d'acqua (Cf. Risorse minerarie ecattività estrattiva in alcune aree del Crotonese e della Sila in età antica, in Archivio storico di Crotone.it). Toponimo greco, dunque, per un'area popolata da Greci, il cui ricordo si tramanda fino ad oggi in numerosi cognomi. Ancora il nome di Mirto viene ricordato nel dialetto usato nel Duecento quando due pezzi di terra in tenimento Murtui iuxta flumen Campaniani, erano venduti nel 1271 al capitolo della cattedrale di Cosenza da Guglielmo figlio del defunto mastro Michele de Parono. Le terre dovevano entrare a far parte dei beni con cui l'ente ecclesiastico sarebbe stato ricompensato per le Messe quotidiane da celebrarsi all'altare dei santi Pietro e Paolo, in suffragio della Regina Isabella d'Aragona, morta presso Cosenza e sepolta nella cattedrale presso lo stesso altare. Nella terra dell'oro, le sedici once d'oro necessarie per l'acquisto facevano parte del danaro che il marito della defunta e Re di Francia Filippo III aveva destinato per le Messe (Cf. E.LICURSI, Le pergamene dell'Archivio capitolare di Cosenza, Cosenza 2013, pergamena 10 luglio 1271).

 Il Basilius Cappellanus Crusi,ricordato nel 1325 perché è tenuto a pagare 3 tarì e 5 grani di tasse (Cf. http://lnx.fmc.it/portale/index.php?option=com_content&view=article&id=1:crosia-storia-del-territorio-&catid=9:storia), se rimane un nome isolato, dimostra però l'esistenza di una comunità organizzata a Crosia intorno alla parrocchia di rito greco, come indica il suo onomastico. E' significativo che il feudatario di Crosia, sul finire del XIV secolo, sia stato Niccolò Ruffo, ciambellano del re Ladislao, il figlio della famosa Margherita di Durazzo che organizzò la resistenza del giovane sovrano orfano contro potentissimi nemici e pretendenti, e lo aiutò nella riconquista del Regno. Capitano di Ladislao nello stesso periodo, come ricorda lo stesso Zazzera, fu Aniello, primo esponente ricordato dagli autori con il cognome Mirto, insieme al fratello Nicola. Io credo che proprio la frequentazione del Conte Ruffo abbia indotto i migliori esponenti della famiglia Mirto a trasferirsi con lui al diretta servizio del Sovrano, prima a Terracina, poi in Toscana, quindi a Napoli. Del resto in quello stesso periodo, un'altra famiglia del Crotonese, anche nobile e illustre, avrebbe già potuto fare la sua apparizione ad Eboli: si tratta della Casa Malena, il cui cognome derivato da un onomastico sarà presente per secoli nelle due regioni (Cf. LONGOBARDI, cit., IV, p.173). Anche questo esempio ricorda il percorso che dal sud al nord compirono tante altre famiglie di ogni ambiente sociale verso il Salernitano e Napoli, specialmente negli anni successivi alle guerre e alle epidemie, cercando di occupare i vuoti che si erano creati. I Mirto, però, e forse anche i Malena (nel cui stemma campeggia il giglio angioino) seguono gli schemi del trasferimento per comando, per convincimento: il feudatario conosce il loro prestigio, ne conosce il valore e ne richiede il trasferimento perché si mettano ove più sia necessario al servizio del Re.

 Lo stesso Zazzera ricorda alcuni elementi che di certo costituiscono il nocciolo duro delle vicende che si sono svolte negli anni in cui i Mirto emergono dalle nebbie della storia. Anche la menzione dell'area di Terracina da cui secondo l'autore proverrebbe la Famiglia, non è certamente casuale, perché è probabile che le prime memorie di allora, ammantate dall'aria eroica della Corte e delle guerre, potrebbero avere avuto come sfondo proprio questa zona, piena di ricordi durazzeschi, fatti di combattimenti, di contese e di congiure. Il Re Ladislao, che a Gaeta si era rifugiato negli anni più difficili, riconoscente alla città per la fedeltà e l'ospitalità ricevute, la colmò di privilegi e vi sposò nel 1389 Costanza Chiaromonte; e anche la Regina Giovanna II volle esservi incoronata nel 1419. Terracina, così prossima a Gaeta, era stata presa con le armi dai Frangipane solo dalla metà del XII secolo e fino ai primi anni del Duecento. Negli anni dei tentativi di conquista del Lazio da parte di Ladislao, fece parte però dei suoi domini, e probabilmente i Mirto vi dovettero passare nel corso delle loro imprese al sevizio del Re. Il loro cognome, tuttavia, allora doveva certamente essere già quello che fu poi affidato alla storia, derivava dunque dal luogo di origine calabrese e non dalle insigne dello stemma. Il disegno scelto per le armi anche in questo caso si dimostra un altro luogo comune, attribuito all'origine di molte famiglie e non ne approfondisce la storia.

 Mirto è invece cognome disceso dal luogo in cui la famiglia ebbe la propria origine o il proprio feudo. Nella stessa area di Mirto sono anche altre le famiglie nobili che nella loro denominazione ricordano le vecchie località degli antenati. Laudomia Grisara, per esempio, feudataria di Mirto che nel 1596 cedeva la contrada a Michele Mandatoriccio, aveva lo stesso nome di una terra nei pressi di Rossano; e il Mandatoriccio nuovo signore di Mirto derivava a sua volta il proprio cognome da un paese non lontano da Crosia.

 Grisara cognome greco; Malena cognome greco (dal frutteto); greco infine Mandatoriccio che probabilmente ricorda la proprietà di mandrie sui pendii collinari. Nome bizantino anche Mirto, ovviamente, poiché la denominazione duecentesca del tenimento Murtui ricorda bene il sostantivo murtià con cui gli abitanti grecofoni chiamavano la pianta che dava il nome alla zona (In Sardegna esisteva fin dal XIII secolo il cognome de Murta, anche derivato dalla località Murta nel Campidano, un centro abbandonato già alla fine del Trecento: cf. G.CONCAS, Origini e significato dei cognomi sardi, in http://www.nominis.net/index.php/cognomi/39-d/df/406-de-murtas-demurtas. E frazione di Genova è Murta, contrada che diede origine alla nobile famiglia omonima, già nota nel XII secolo).

 Che la Famiglia sia di origine bizantina, lo dimostra e conferma l'incarico ricoperto dal monaco Masello Mirto nella prima metà del Quattrocento: abate del cenobio greco di S.Giovanni a Piro, il grande centro spirituale, culturale e politico nel Cilento. Masello Mirto era monaco basiliano e quindi di rito bizantino, primo vescovo ricordato della Casa, poiché fu nominato da Eugenio IV vescovo di Capaccio nel 1441, e pose sotto la sua giurisdizione popolazioni grecofone e latine, morendo nel 1461 (Cf. VOLPI, cit., p. 73).

 Le cure dei feudi concessi dai Sovrani nella zona di Eboli e delle proprietà acquistate intorno ad essi, inducono poi un ramo dei Mirto a stabilirsi definitivamente nella città, senza lasciare i contatti con l'ambiente di Corte che saranno stabili da parte della diramazione di Caiazzo. E qui, un nuovo segno della loro origine calabrese: nella chiesa di S.Francesco i Mirto edificano già nel 1510 una cappella di patronato già nel 1510. Il suo titolo è S.Maria della Pietà. E' vero che una Collegiata ebolitana porta questa denominazione; ma è vero pure che in questi secoli di morti repentine per guerre e per contagi, la Madonna che stringe fra e braccia il Figlio morto è ricordo di tante tragedie avvenute vicino.

 Carmelo Currò Troiano

Il giurista e Senatore Guglielmo Vacca
La struttura del palazzo risale al XVI sec. ma  le sua fondamenta poggiano su quelle di una precedente struttura medievale. Nel corso dei secoli si è poi ampliato acquisendo fabbricati in aderenza e la sopraelevazione dell’attuale terzo piano.

Nella seconda metà dell'800, il palazzo fu venduto dall'ultimo discendente del ramo ebolitano  dei Mirto al dottor Angelo Vacca e fu anche la residenza di suo figlio il senatore Guglielmo Vacca. La famiglia Vacca de Dominicis ha vissuto stabilmente nel palazzo fino alla fine degli anni'50. Gli appartamenti furono, poi, abitati in locazione fino al sisma del 1980 che ne decretò il lungo abbandono
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